Continua il nostro impegno in favore dei Soci e della nostra comunità. Questa volta mettiamo in evidenza una nuova convenzione con la Cooperativa sociale e laboratorio artistico per diversamente abili denominata “RIUSCITA SOCIALE”.
Oltre a favorire l’acquisto da parte dei soci di queste opere d’arte, con lo sconto del 10%, otteniamo anche l’obbiettivo di mettere in evidenza ed aiutare un’Associazione più che meritevole che svolge con entusiasmo una importante iniziativa sociale in favore di persone diversamente abili, che affiancate da maestri d’arte, soci volontari, educatori e collaboratori danno vita a creazioni straordinarie.
Tra i maestri d’arte che collaborano attivamente e con entusiasmo con la Cooperativa c’è anche la nostra Associata Cav. VITTORIA MARZIARI.
La Cooperativa RIUSCITA SOCIALE con la quale siamo convenzionati fa ai nostri soci uno sconto del 10% su le opere presenti presso la propria sede sociale posta in Via Enea Silvio Piccolomini 168 Zona Valli Siena. https://www.riuscitasociale.it/
Si pubblica un interessante articolo scritto dalla studiosa d’archivistica Cav. Dottoressa Patrizia TURRINI nostra socia che ringraziamo per la ricerca effettuata sulla cavalleria nel Medioevo a Siena.
Introduzione. Le origini della cavalleria si possono forse rintracciare nel mito dei fantastici centauri: l’uomo che, domato il cavallo, lo cavalcava con destrezza poteva sembrare, agli occhi delle popolazioni del mondo antico, come un unico e nuovo animale capace di spostarsi velocemente e al contempo dotato dell’intelligenza umana. Nelle guerre che, in progresso di tempo, costituiscono – ahimè – una costante della storia dell’umanità, coloro che combattevano sui cavalli spesso risultavano vincenti sui fanti appiedati e peggio equipaggiati; dal successo in quei combattimenti nacque la fama della cavalleria nei vari eserciti. A Roma, fin dall’epoca della monarchia, l’Ordine equestre fu istituzionalizzato con connotati militari, divenendo poi, con le riforme dei Gracchi (133 a. C.), una classe di censo, posta in mezzo fra senatori e plebe: gli equites dovevano essere liberi cittadini, di almeno 18 anni, e possedere un censo stabilito; alcuniricevevano il cavallo dallo Stato, altri lo mantenevano a proprie spese; tutti portavano come distintivo del loro status un anello d’oro, con una gemma incastonata a mo’ di sigillo. Successivamente l’Ordine equestre romano decadde, anche perché gli imperatori lo conferivano spesso a loro favoriti, anche liberti arricchiti, e perché non pochi cavalieri si comportavano con scarsa dignità.
Dopo il dissolvimento dell’Impero romano, arriviamo, con un forte salto temporale, ai secoli IX e X, quando la Chiesa, per evitare costumi troppo crudeli, contribuiva a fondare la cavalleria medievale, cercando un equilibrio tra la pietas cristiana e la vocazione bellica propria delle popolazioni barbariche: in questa istituzione alla regolata capacità di combattere si assommava infatti il dovere di soccorrere, anche con le armi, poveri e bisognosi, specie se orfani e donne. All’incremento della cavalleria medievale contribuirono le leggende galanti ed eroiche, narrate nelle corti e nei castelli, sui paladini di Carlo Magno e sui cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù, e soprattutto la diffusione del culto di una serie di “santi cavalieri”; Michele, Giorgio, Demetrio, Maurizio…
Un culto incrementatosi sul lungo periodo, come suggeriscono ad esempio due copertine di registri di uffici comunali senesi, sulle quali è raffigurato San Michele Arcangelo. Nella prima assai rovinata, facente parte dell’archivio dell’Opera della metropolitana, datata alla seconda metà del sec. XIV, forse di Paolo di Giovanni Fei, il Santo raffigurato seduto in trono, mentre calpesta il drago ormai vinto, innalza con la mano destra la spada in segno di vittoria, al suo fianco sinistro è appoggiato lo scudo preziosamente istoriato. Nella seconda copertina della Gabella, ufficio finanziario, datata 1444 luglio-dicembre, attribuita al Maestro dell’Osservanza, San Michele sta combattendo aspramente con il drago in una simbolica e movimentata rappresentazione del Bene che sconfigge il Male
Fig.1
Nei secoli successivi la cavalleria annoverava soprattutto i membri delle famiglie feudali, anche perché solo i nobili con i loro redditi terrieri, o se cadetti con l’aiuto dei congiunti, potevano adempiere ai notevoli costi dell’investitura e al dettato che vietava al cavaliere di esercitare altra arte o professione che desse lucro. La cavalleria raggiunse il massimo splendore tra l’XI e il XIII secolo con la fondazione degli Ordini cavallereschi legati alle spedizioni oltremare (quelle che modernamente sono conosciute come crociate): Ospitalieri, Templari, Teutonici, i cosiddetti “cavalieri di Cristo”, guerrieri ma solo contro gli infedeli e al contempo monaci, facevano vita in comune e avevano l’obbligo del celibato e dell’obbedienza.
La cavalleria sia feudale, sia degli Ordini crociati, decadde nei secoli successivi, divenendo un simbolo onorifico, concesso sia dagli Ordini sopravvissuti, in particolare quello di Rodi poi di Malta, sia dai vari sovrani o dal pontefice a un personaggio, talvolta dietro pagamento, talvolta per servizi resi in campo militare o civile: il riconoscimento era comunque in gran parte svuotato delle originarie funzioni sociali e religiose, così in più casi ‘l’onore diventava un merito’. Anzi i vari sovrani, in gara fra di loro, crearono una serie di Ordini utili soprattutto per legare alla dinastia regnante i nobili, detti appunto “cavalieri dei re”. Un esempio è l’Ordine di Santo Stefano fondato nel 1561 dal granduca di Toscana Cosimo I, con approvazione di papa Pio IV. In una tavoletta di Biccherna, magistratura finanziaria del Comune di Siena, del 1562, è rappresentato proprio il momento fondativo con il granduca che nel duomo di Pisa riceve da Giorgio Cornaro, nunzio pontificio, le insegne di gran maestro dell’Ordine
Fig.2
Come tutti sappiamo, il nome di “cavaliere” sotto questa tradizione soprattutto onorifica è giunto fino a noi, tuttavia i fini pacifici e solidali e la ‘natura’ dell’odierno insignito, creato come tale per meriti nel campo del lavoro o sociali o sportivi, nulla hanno a che fare con gli scopi della cavalleria medievale o ne riprendono solo pochissimi aspetti. Una cavalleria, quella odierna, piuttosto all’insegna dei principi indicati dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel discorso tenuto al Quirinale nel 2001, nel cinquantesimo dell’istituzione dell’Ordine al merito della Repubblica italiana: “Non sono le decorazioni cavalleresche che rendono onore alle persone, ma sono il merito e il valore della persona che rendono onorevoli le decorazioni”.
La cavalleria a Siena nel Medioevo. Tutto ciò premesso, ritengo che alcune annotazioni relative a norme, consuetudini e personaggi che esercitarono la cavalleria a Siena nel Medioevo possono risultare ancora oggi interessanti come memoria storica.
Nei tempi più antichi i cavalieri appartenevano alla nobiltà feudale del territorio di influenza senese ed erano obbligati a servire con le armi, se richiesti, gli imperatori e i loro rappresentanti. Così fece, ad esempio, il cavaliere Ildibrandino di Uguccione Aldobrandeschi, “familiare” dell’imperatore Federico I, che nel 1160 lo nominava conte palatino: questa alta protezione contribuì al consolidamento del potere degli Aldobrandeschi in Maremma. Un altro esempio di nobile del contado senese che esercitava cavaliere è quello di Galgano Guidotti, vissuto tra il 1148 e il 1181 a Chiusdino, divenuto santo nel 1185, dopo un immediato processo di canonizzazione nel quale fu interrogata la sua stessa madre Dionisia. In una tavoletta del 1320 della Biccherna è rappresentato nei suoi eleganti abiti e con la spada da cavaliere, quella che sta infiggendo nella roccia per intraprendere invece la vita eremitica che lo porterà tra i Santi protettori della città
Fig.3
I costi per l’assunzione della cavalleria erano davvero elevati: spese per l’armatura e per l’equipaggiamento, mantenimento dello scudiere, dei paggi e di più cavalli (da viaggio, da parata, da combattimento). Così il feudatario spesso si rivaleva sui propri vassalli, i quali erano tenuti a pagare un doppio contributo ad ogni cerimonia di investitura cavalleresca di uno dei figli del loro signore, come risulta, ad esempio, in una imposizione fatta dai signori di Torniella nella Maremma agli abitanti di quel castello nel 1233, e da un contratto stipulato nel 1225 dai coniugi Ranuccio e Sobilia di Staggia con i loro affittuari. Il raddoppio dell’imposta era dovuto sia per l’assunzione della cavalleria, sia per un matrimonio, sia per pagare il riscatto di un appartenente alla famiglia dei signori, che fosse stato catturato dai nemici.
Nei secoli XII-XIII alcuni feudatari senesi si recarono come “crociferi” in Terrasanta: gli eruditi seicenteschi riferiscono, ad esempio, del conte Ranieri d’Uggeri d’Elci che poi sposò Despina principessa della Croazia e della Serbia, e del cavaliere Guido Bandinelli, nipote del papa Alessandro III, che partecipò nel 1219 all’espugnazione della città di Damietta e al ritorno a Siena fece costruire un grandioso palazzo. Di questo personaggio, noto come Guido del Palagio o da Palazzo, si conserva ancora il sigillo cavalleresco.
Fig.4
Nelle città la cavalleria si introdusse più tardi rispetto al territorio, cioè quando i nobili lasciarono i loro castelli nel contado e si inurbarono, volontariamente o perché costretti dai patti di sottomissione con il Comune, quindi soprattutto dagli inizi del Duecento. Al Comune medievale di Siena stava a cuore la presenza di numerosi cavalieri, sia per poterli avere nel proprio esercito, sia come “onore” della città stessa, sia per utilizzare i loro “servigi” nelle ambascerie presso altri Comuni e signorie. Fin dal secolo XIII gli statuti prevedevano un donativo per i nuovi cavalieri, solo se cittadini senesi, per il valore di 100 soldi (5 lire), sufficienti per l’acquisto di spada, cintura e speroni dorati e per l’offerta durante la messa che precedeva la cerimonia. Dai pagamenti per tale donativo, effettuati nella prima metà del Duecento dal camarlengo della Biccherna, risultano varie investiture cavalleresche: ad esempio, nel 1226, per la festa di Santa Maria d’agosto, fu fatto cavaliere Orlandino di Abramo; nel luglio 1248, Bandinello di Guido del Palagio, figlio del “crocifero” già ricordato. Rimane anche il ricordo del cavalierato nel 1264 del giudice Mozzo, circostanza in cui il Comune ghibellino pagò eccezionalmente le spese per il padiglione predisposto nella piazza del Campo, donando inoltre al giudice ben 100 lire, per deliberazione del Consiglio generale e del popolo.
La cerimonia, condotta con semplicità quando avveniva nell’accampamento militare durante una guerra o una spedizione, era invece celebrata in città con sontuosità e con notevoli spese, anche per l’obbligo del nuovo cavaliere di tenere una “corte bandita”. L’aspirante cavaliere doveva infatti far annunciare a Siena e nel contado il giorno della investitura e i giorni, da otto a quindici, dei relativi festeggiamenti. Il complesso rituale prevedeva più funzioni religiose con digiuni e penitenze, che culminavano nella solenne investitura da parte dell’imperatore, o di un re o un principe, o più spesso da parte di uno o più cavalieri anziani, o anche in progresso di tempo di un delegato del papa; infine si teneva una serie di feste laiche, cioè conviti, cene, tornei e balli. Dalla dettagliata descrizione dei sontuosi festeggiamenti per l’investitura a cavaliere nel 1326 di Francesco di Sozo Bandinelli, sappiamo che dal 18 al 25 dicembre furono organizzati ottobanchetti con circa trecento “taglieri” (un tagliere veniva imbandito per due invitati). Trattandosi della settimana che precedeva il Natale, alcuni menù furono “di grasso” e altri “di magro”. Per fare un esempio, il 23 dicembre furono serviti ravioli bianchi, vitello lesso e cacciagione, “ambrogino di pollo” alla frutta secca, cappone arrosto e pere candite.
Il momento centrale del complesso cerimoniale era comunque quello della consacrazione del nuovo cavaliere, davanti a numerosi spettatori, con una serie di atti simbolici, non tutti sempre compiuti: la “guanciata”, il bacio, il tocco con la spada sulla testa e sulla spalla, le ghirlande, gli elmi, i cappucci posti sul capo dell’aspirante… Alcuni di questi atti, se effettuati, davano luogo a particolari qualificazioni: “cavalieri bagnati”, “di corredo”, “di scudo”… Il rito, compiuto senza eccezioni, quello che dava validità alla cerimonia, era l’apposizione all’aspirante, da parte di cavalieri ‘di lungo corso’, del cingolo militare (spada, cintura e speroni d’oro o dorati); a seguire il nuovo cavaliere giurava sul vangelo di essere fedele alla Chiesa, di assumere la difesa dei propri concittadini, di combattere per le cause giuste, in particolare per le vedove, gli orfani e i poveri, infine di mantenere e rispettare la dignità di miles.
Anche a Siena, come in altre città, i cavalieri formarono una corporazione, vero e proprio nerbo dell’esercito ghibellino; la corporazione era retta da tre consoli, uno per Terzo, eletti all’interno del sodalizio stesso. Nella battaglia di Montaperti i principali artefici della vittoria dei senesi contro i fiorentini furono, come è noto, i cavalieri teutonici di re Manfredi, ma dettero il loro importante contributo anche i cavalieri della città e del contado, difendendo tra l’altro il carroccio.
I milites con i loro consules mantennero grande prestigio nell’ordinamento comunale anche dopo il trapasso negli anni Settanta del Duecento dal ghibellinismo filo-imperiale al guelfismo e nonostante l’esclusione per legge delle famiglie magnatizie dal governo popolare. Il costituto in volgare del 1309-1310 riporta una serie di privilegi, anche come forma di ‘compenso’ per la citata esclusione politica, e al contempo una serie di obblighi per i cavalieri e in particolare per i loro consoli. I cavalieri avevano diritto, in occasione dell’investitura, di tenere in piazza del Campo la propria corte, innalzando anche strutture di legname, non ricevendo tuttavia doni contro le norme suntuarie; i tre consoli dei cavalieri – eletti ora dai Nove, dalla Biccherna e dalla Mercanzia – avevano il compito della difesa dei Nove da ribellioni e congiure, tenendo sempre ben distinte le proprie funzioni da quelle dei governanti, potevano richiedere la convocazione dei Consigli generali e parlare liberamente in tali Consigli anche in materie vietate agli altri cittadini; tutti i cavalieri dovevano partecipare armati e con il proprio cavallo alle imprese militari, sotto pena di 50 lire per il primo giorno di assenza e di 10 lire ogni giorno successivo. Una tavoletta di Biccherna del 1364, attribuita seppur con dubbi a Lippo Vanni, raffigura fra tutti coloro che erano tenuti a versare tributi al “Buon Governo” di Siena, facenti quindi parte attiva della società senese, anche un cavaliere con la sua ferrea armatura e la sua spada scintillante.
Fig.5
La normativa suntuaria, in particolare quella contenuta nello “statuto del donnaio” del 1343, dava ‘grande onore’ ai cavalieri, con mogli e figli – e anche ai giudici e ai “medici fisici” – , consentendo loro quello che proibiva a tutti gli altri cittadini, compresi i mercanti e la classe “mezzana” a quel tempo al governo, cioè sfoggiare abiti di zendado, di velluto, rifiniti di ermellino e di vaio, scarpe stampate e dorate, cinture, diademi, fermagli, bottoni e frange d’oro e d’argento, perle e pietre preziose. Alle categorie esenti dalle leggi contro il lusso era consentito anche tenere conviti, matrimoni, feste e balli senza limitazione nel numero degli invitati e nel numero e tipo di pietanze, infine da defunti essere rivestiti e accompagnati all’ultima dimora con una pompa proibita a tutti gli altri.
Quando nei Comuni fu istituito l’ufficio di podestà, come autorità suprema nell’amministrazione della giustizia, nella tutela dell’ordine pubblico e nel comando dell’esercito, gli statuti vollero che si trattasse di un forestiero che fosse cavaliere, o che comunque all’ingresso in carica ricevesse la cavalleria. A Siena il podestà doveva portare con sé altri cavalieri che lo coadiuvavano specie nel controllo dell’ordine pubblico in città e nel contado: norme specifiche prevedono infatti la loro presenza presso il monastero di San Galgano, a Paganico, Petriolo, Prata e Macereto, a Buonconvento e nella strada Francigena. Così i connestabili dell’esercito senese erano spesso cavalieri, anche di corredo. Talvolta quelli che esercitavano il mestiere delle armi si riunivano in “tavole rotonde” oppure si davano il nome di “cavalieri erranti”, rifacendosi a nomi e tradizioni della cavalleria altomedievale. Anche i senesi che andavano a ricoprire la carica di podestà in altri Comuni di rilievo avevano il titolo di cavaliere o lo ricevevano all’ingresso nell’ufficio. A Siena dovevano essere obbligatamente insigniti del cavalierato il rettore dell’Opera del Duomo e quello dell’ospedale del Santa Maria della Scala, entrambe cariche ricoperte a vita.
In progresso di tempo agli appartenenti all’aristocrazia si unirono nel cavalierato persone molto ricche, o di alta posizione sociale o culturale, mai di condizione umile o servile. Così nel Quattrocento molti appartenenti ai Monti dei Nove, del Popolo e dei Riformatori, facenti parte del governo del Comune di Siena, ‘si nobilitarono’ con la cavalleria concessagli da imperatori, re, conti, e altri titolati e anche da cavalieri più anziani, e successivamente dai pontefici, spesso a ricompensa di incarichi che quei personaggi avevano svolto. Certo lo “status” sociale di cavaliere comportava una serie di costosi obblighi: ad esempio Ludovico Petroni, giurista e letterato, appartenente al Monte dei Nove, cavaliere cesareo e conte palatino, diceva di se stesso nel 1466: “ Truovomi cavaliere e bisogniami tenere famegli e chavagli, che l’arte de’ chavagleri a Siena è graveza”.
Con il proliferare di cavalieri nominati addirittura “in fasce” o “in articulo mortis” l’istituzione diventava, in progresso di tempo, più che altro un titolo da esibire, presto sostituita dagli Ordini equestri con i quali re e principi compensavano e legavano a sé i propri sudditi di famiglie per lo più aristocratiche. Ma questa è un’altra storia che vi racconterò, se lo vorrete, in un’altra puntata!
Bibliografia essenziale
C. Mazzi, Descrizione della festa in Siena per la cavalleria di Francesco Bandinelli nel 1326, in “Bullettino senese di storia patria”, XVIII (1911), pp. 336-363.
A. Lisini, La cavalleria del Medioevo e l’origine delle decorazioni equestri, Siena, Lazzeri, 1929.
Le Biccherne. Le tavole dipinte delle magistrature senesi (secoli XIII-XVIII), Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1984.
M.A. Ceppari Ridolfi e P. Turrini, Lusso e cerimonie nella Siena Medievale. Con l’edizione dello statuto del Donnaio, Siena, Il Leccio, 1993.
P. Turrini, Ludovico Petroni. Diplomatico e umanista senese, in “Interpres. Rivista di studi quattrocenteschi diretta da Mario Martelli”, XVI (1997), pp. 7-59.
Il costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, a cura di M. Salem Elsheikh, Siena, Fondazione Monte dei Paschi, 2002, Dist. I, capp. 28, 37, 38, 91-92, 94, 151, 269-270, 368, 491; Dist. III, cap. 56, 169; Dist. V, capp. 186, 190, 283, 505, 506, 508.
Cavalieri dai Templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani, a cura di A. Barbero e A. Merlotti, Milano, Electa, 2009.
Didascalie
[Fig. 1] Siena, Archivio di Stato, tavoletta di Gabella n. 27, Maestro dell’Osservanza, San Michele Arcangelo combatte contro il drago, 1444 luglio- dicembre.
[Fig. 2] Siena, Archivio di Stato, tavoletta di Biccherna n. 65, Tiberio Billò, Cosimo I de’ Medici riceve le insegne di gran maestro dell’Ordine di Santo Stefano, post 15 marzo 1562.
[Fig. 3] Siena, Archivio di Stato, tavoletta di Biccherna n. 11, priva di attribuzione, Il camarlengo don Stefano, monaco di San Galgano, inginocchiato davanti al Santo, 1320 gennaio-giugno.
[Fig. 4] Sigillo cavalleresco di Guido del Palagio (da A. Lisini, La cavalleria del Medioevo e l’origine delle decorazioni equestri, Siena, Lazzeri, 1929).
[Fig. 5] Boston, Museum of Fine Arts (inv. n. 50.5), tavoletta di Biccherna, Lippo Vanni (?), Offerta di tributi, 1364 gennaio-giugno.
In occasione della ricorrenza della promulgazione della Legge fondamentale della Repubblica Italiana sottoponiamo all’attenzione dei lettori una riflessione di Roberto Barzanti sull’art. 2 della Costituzione.
Barzanti, Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”, noto intellettuale, storico e giornalista, fra i numerosi suoi impegni ed incarichi, vogliamo ricordare che è stato Sindaco di Siena dal 1969 al 1974, deputato al Parlamento europeo dal 1984 al 1999. Nel corso del suo lavoro di parlamentare è stato vicepresidente dell’Assemblea (1992-1994) e presidente della Commissione cultura e informazione (1989-1991).
Attualmente è presidente dell’Accademia degli Intronati. Barzanti è socio ANIOC della delegazione comunale di Siena.
Diritti e doveri
«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»
Tra gli articoli della nostra Costituzione ha uno spicco particolare l’articolo 2, molto discusso, ricco di suggerimenti e di indicazioni attualissime. Rileggiamolo. La via migliore per comprendere il significato di una norma è la riflessione sul suo formarsi. Ripercorrendo le varie proposte che hanno condotto alla redazione finale è possibile cogliere gli elementi teorici alla base di frasi distillate con somma cura, cercando di contemperare i diversi apporti. In questi brevi appunti mi limito a offrire qualche considerazione, senza la pretesa di entrare nel merito di problemi giuridici e, tanto meno, di tener conto della giurisprudenza che al riguardo si è accumulata. Nell’articolo sono sintetizzati tre principi essenziali del complesso edificio della nostra Repubblica: il principio personalista, il concetto del pluralismo sociale, la nozione di solidarietà. La proposta iniziale fu avanzata da Giorgio La Pira e avrebbe dovuto essere l’articolo 1. Vi era scritto che il fine della Costituzione «è la tutela dei diritti originari e imprescrittibili della persona umana e delle comunità naturali nelle quali essa organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona». Balzavano subito in evidenza da un lato il richiamo ai diritti naturali e dall’altro la visione dell’uomo, cioè dell’umanità: le donne oggi non accetterebbero un maschile astratto, derivato da un’alta tradizione. L’impronta era marcatamente cattolica, perché i diritti scaturivano dalla creatura umana in quanto partecipe dell’ordine naturale. San Tommaso ne era un suggeritore non secondario, ma anche il battagliero giusnaturalismo rilanciato e modulato in termini laici. Ciò che più importa, detto in soldoni, è che i diritti non sono concepiti come una concessione dello Stato e nemmeno son vigenti perché riferiti al “cittadino”, ma sono propri della persona in quanto tale. Lo Stato avrà il compito di promuoverli, garantirli e farli diventare concreti «nel rispetto della natura spirituale, libera, sociale, dell’uomo». Son parole dell’attacco della proposta, che non mi metto a seguire nelle varie modifiche subite soprattutto ad opera di Lelio Basso. Sottolineo che è scomparsa la «natura» quale sorgente dei «diritti originari e imprescrittibili»: dizione che sarebbe sopravvissuta nella qualificazione di «inviolabili», mentre l’esplicito rinvio alla «natura» scomparve del tutto. Anche il termine «persona» sparì. E qui il discorso dovrebbe snodarsi lungo e puntiglioso. Basterà dire che si volle evitare un collegamento troppo puntuale con la dottrina del personalismo, che aveva preso piede a partire dagli anni Trenta e aveva avuto nel cattolico Emmanuel Mounier il suo profeta più accreditato e seguito. Il personalismo si opponeva sia all’individualismo liberal- borghese sia al collettivismo di conio marxista. L’uomo non è un singolo che faccia storia a sé, «nessun uomo è un’isola» per rammentare il titolo di un famoso libro di Thomas Merton, tratto dal grande John Donne: «No man is an island». Si forma e vive in mezzo ad una comunità fatta di altri uomini e di altre donne, nei rapporti che costruisce, nelle attività che condivide, nella solidarietà che alimenta. Si può ben dire che, pur scomparsa la parola, il senso profondo di un personalismo inteso nel suo largo significato è sostanzialmente accolto e non a caso valorizzato quale dimensione necessaria del pluralismo. Le «formazioni sociali» sono quei corpi intermedi tra istituzioni e persone che danno luogo alla “società civile” e contribuiscono a plasmare la «personalità» di ognuno. Termine, direi, di compromesso, perché esprime più che altro i caratteri psicologi e le attitudini dei singoli, eppur serba eco della persona. «La vita sociale dell’uomo – sottolineò Alessandro Galante Garrone in un prezioso volumetto di educazione civica, “Questa nostra Repubblica” – non si esaurisce nei suoi rapporti con lo Stato. E in un regime di vera libertà ogni spontaneo raggruppamento sociale deve potersi liberamente espandere nel pieno rispetto della libertà altrui». Non era una pura ripresa del personalismo, con le sue ricadute organicistiche. E poteva accontentare tutti coloro che immaginavano una democrazia nuova, pluralista nel confronto delle idee e ispirata ad una sollecita solidarietà. Spesso si fa dell’ironia contro coloro che fanno appello a questo concetto e li si accusa di moralismo. Invece la solidarietà è fondante per tenere insieme un popolo che non si frantumi in risse odiose e in protervi egoismi. Non a caso si aggiunse che alla tutela dei diritti avrebbe dovuto accompagnarsi l’«adempimento dei doveri»: «base – è stato sentenziato dalla Corte – della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente». È inutile esercizio chiosare il calibrato testo dell’articolo 2 e chiedersi con amarezza quanto di esso si rifletta nella dura condizione che soffriamo, non solo in Italia. I principi non si incarnano mai pienamente, ma la quotidiana lotta per farli vivere nelle leggi, nei costumi, nelle esperienze, nei fatti è il solo modo onesto di non degradarli a vacue enunciazioni.
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“Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui”. ( dalla Lettera Apostolica di Papa Francesco pubblicata nel 2019).
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Il tutto è evidenziato dai molti personaggi nel loro umano convivere nel dilatarsi del tempo.
Tra i tanti senesi rappresentati si nota anche Roberto Barzanti, Cavaliere di Gran Croce e socio Anioc della delegazione di Siena, al quale vanno i nostri complimenti.
Essere rappresentati nel presepe non è cosa da poco!
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Donazione di un defibrillatore alle suore “Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli” presso l’Istituto S. Girolamo.
Ieri giovedì 9 dicembre si è celebrata la cerimonia di consegna di una nuova postazione DAE (Defibrillatore semiautomatico esterno) alle suore “Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli” presso l’Istituto S. Girolamo alla presenza dei vertici delle due associazioni Maura Marchionni nostra delegata Provinciale e Juri Gorelli presidente di Siena Cuore.
La nostra associazione attraverso una raccolta fondi ha contribuito al 50% delle spese di acquisto.
Sarà Siena Cuore ODV a occuparsi della formazione all’utilizzo dello strumento e alle manovre salvavita del personale dell’Istituto e delle suore.
L’intervista alla nostra Delegata Provinciale Maura Marchionni:
La raccolta fondi che abbiamo promosso ha dimostrato che la solidarietà è un aspetto della nostra vita che può risultare faticoso, considerate le varie difficoltà del momento, ma è utile per la comunità in cui viviamo e un piccolo contributo può essere per ciascuno di noi anche gratificante. Lo ha dimostrato il fatto che ci sono state donazioni non richieste ed assolutamente inaspettate come ad esempio un piccolo contributo di due classi della scuola primaria dell’Istituto S. Girolamo (prima e quinta) e altre somme provenienti da chi ha partecipato al concerto eseguito gratuitamente dall’Istituto Rinaldo Franci. Da gioia vedere che, quando si opera per fare del bene, le persone rispondono positivamente. L’ A.N.I.O.C. non vuole essere un’associazione autoreferenziale ma, nel suo piccolo, desidera portare avanti azioni in favore della nostra comunità.
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